Twitter, Facebook, Instagram, LinkedIn: sono solo alcuni dei social media attualmente più in voga.
Oggi, in piena era digitale, queste e altre piattaforme sono parte integrante non solo della vita di moltissimi individui ma anche dell’attività di altrettante imprese, che le utilizzano su base quotidiana, sfruttandone le indiscusse potenzialità, per accrescere la propria visibilità sul mercato, promuovere prodotti, veicolare informazioni o semplicemente per partecipare ad una rete spesso foriera di opportunità.
È inevitabile che la così ampia diffusione dei social media possa influenzare anche lo svolgimento dei rapporti di lavoro. In particolare, il loro utilizzo da parte del personale dipendente può venire in rilievo sotto un duplice aspetto, che esamineremo brevemente in questo approfondimento.
Da un lato può rilevare la gestione degli account istituzionali dell’impresa, spesso affidata a uffici o persone specifiche – per lo più individuate nell’ambito delle funzioni di vendita o marketing – che con maggiore o minore grado di autonomia vengono preposte all’aggiornamento dei profili social aziendali, alla creazione e condivisione di contenuti e alla gestione delle comunicazioni che l’impresa diffonde nel proprio network sotto forma di post, immagini o interazioni (come commenti, condivisioni di contenuti da altri profili e likes).
Sotto un diverso e più problematico profilo, a rilevare può essere il comportamento che un dipendente adotti nell’utilizzo dei propri profili social a titolo personale: un comportamento, quindi, extralavorativo e tuttavia potenzialmente idoneo a ripercuotersi sul rapporto di lavoro, talvolta con conseguenze irreparabili.
È credenza diffusa che i social network costituiscano una zona franca ove è consentito esprimersi liberamente e che le opinioni scolpite in un post siano sempre improduttive di effetti, nella errata convinzione che basti, al più, eliminarle con un ‘click’.
In questo contesto, da alcuni anni la giurisprudenza si trova con discreta frequenza ad affrontare vicende imperniate attorno a commenti o espressioni offensive indirizzate da dipendenti nei confronti dei rispettivi datori di lavoro attraverso i social media. Le novità, a ben vedere, risiedono unicamente nel mezzo utilizzato, perché i principi di diritto applicati in queste fattispecie hanno poco di innovativo, riferendosi, in senso lato, al diritto di critica del prestatore di lavoro.
In estrema sintesi, il diritto di esprimere critiche nei confronti dell’imprenditore-datore di lavoro rientra nel più ampio diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, che trova in ambito lavoristico il suo riflesso nell’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori («I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge»).
La critica, sostanziandosi nella manifestazione di un’opinione e quindi di un giudizio di valore squisitamente soggettivo, non deve essere necessariamente obiettiva e neutra; ciò, beninteso, non significa che sia scevra da limiti.
Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, pur costituzionalmente tutelato, nella generalità dei rapporti non può essere esercitato sino al punto da ledere altri diritti, anch’essi tutelati dalla Costituzione in quanto inviolabili (art. 2 Cost.), come quelli alla reputazione, all’immagine e all’onore della persona oggetto di critica.
Inoltre, nell’ambito del rapporto di lavoro, il diritto di critica incontra un ulteriore limite nell’obbligo di fedeltà connaturato al contratto di lavoro subordinato (art. 2105 c.c.), che impone di manifestare le opinioni nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede e di non divulgare, dentro e fuori l’ambiente di lavoro, notizie riguardanti l’impresa in modo da arrecarvi pregiudizio.
Nel corso degli anni, per individuare un giusto equilibrio tra il diritto del prestatore di lavoro a manifestare il proprio pensiero e quello dell’imprenditore all’onore e alla reputazione, la giurisprudenza ha delineato i limiti al diritto di critica del primo traendo spunto dai principi elaborati in materia di critica e cronaca giornalistica.
Tali limiti sono rappresentati dalla «continenza formale», che impone al lavoratore di esporre la propria critica con misura, moderazione e in modo civile, nel rispetto dei principi generali di correttezza e della altrui dignità; nonché dalla «continenza sostanziale», secondo cui il giudizio di valore deve fondarsi su fatti veritieri. Il dipendente che eserciti il proprio diritto di critica in violazione anche di uno soltanto dei suddetti limiti attua un comportamento illecito che può formare oggetto di procedimento disciplinare e, nei casi più gravi, costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c.
Applicando i principi appena sintetizzati alla critica del dipendente veicolata tramite i social media, che consentono potenzialmente, anche attraverso le condivisioni e i commenti altrui, la diffusione capillare del pensiero, la giurisprudenza ha, solo per fare alcuni esempi, giudicato sorretto da giusta causa il licenziamento intimato al prestatore di lavoro – nella fattispecie un lavoratore-sindacalista – per avere rivolto all’azienda, in alcuni commenti pubblicati su Facebook, espressioni connotate da «sgradevole volgarità», ritenute prive di una qualsivoglia utilità divulgativa e finalizzate a ledere il decoro e la reputazione dell’imprenditore (Cass. Civ., ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35922; in termini analoghi Cass. Civ., n. 10280/2018).
In altra occasione la Cassazione ha affermato che un post su Facebook, ancorché pubblicato sulla bacheca personale del dipendente, se caratterizzato da contenuto offensivo nei riguardi dei vertici aziendali può costituire atto di insubordinazione e giustificare il licenziamento disciplinare (Cass. Civ., n. 27939/2021).
Diversa piattaforma ma identico epilogo ha visto il caso del dipendente licenziato per avere “cinguettato” frasi sprezzanti e denigratorie all’indirizzo del datore di lavoro sul proprio profilo Twitter (Trib. Busto Arsizio, 20 febbraio 2018, n. 62).
Senza dimenticare che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai diffuso, la pubblicazione di messaggi offensivi o ingiuriosi riguardanti persone specifiche o agevolmente individuabili può integrare il reato di diffamazione aggravata (art. 595, co. 3 c.p.) in quanto recata con il mezzo della stampa o con «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», a cui i social network sono ritenuti assimilabili.
Quello dei social media, insomma, è un terreno che può rivelarsi insidioso e non sorprende che un numero sempre maggiore di enti scelga di implementare specifiche procedure atte a regolamentarne l’utilizzo.
La Social Media Policy – che può concretizzarsi in una procedura autonoma e indipendente o essere calata all’interno di preesistenti regolamenti aziendali, come quelli che disciplinano l’utilizzo degli strumenti informatici – consente all’impresa di fornire indicazioni chiare sull’utilizzo dei social media da parte dei dipendenti, sotto entrambi i profili esaminati in precedenza.
Quanto agli account aziendali è possibile dettare la “Netiquette” che il personale responsabile della loro gestione, rappresentando a tutti gli effetti l’impresa, deve adottare negli ambienti social e in generale nel web (come evitare l’utilizzo di espressioni volgari o la diffusione di messaggi equivocabili o addirittura dal contenuto discriminatorio). È inoltre possibile stabilire obblighi e divieti da rispettare nell’utilizzo e nell’aggiornamento dei profili aziendali, come ad esempio:
– l’obbligo di verificare la correttezza delle informazioni divulgate;
– l’obbligo di attenersi, nella condivisione di contenuti, alle strategie comunicative e alle politiche di marketing dell’impresa;
– il divieto di condividere informazioni riservate, contenuti protetti da diritto d’autore o immagini di persone ritratte in luoghi privati senza averne acquisito il consenso.
Per quel che concerne l’utilizzo, al di fuori del luogo di lavoro, degli account personali dei dipendenti, benché non sia consentito all’imprenditore di ingerirsi nelle abitudini e nei comportamenti extralavorativi dei prestatori di lavoro, le Social Media Policies possono essere utilizzate per sensibilizzarli circa l’importanza di un uso corretto dello strumento. In alcuni casi, ad esempio quando il profilo personale rivela l’appartenenza all’azienda (come nel caso dei Brand Ambassador), possono imporre l’utilizzo di appositi avvisi riguardanti la natura esclusivamente personale dei commenti pubblicati e dei contenuti condivisi e raccomandare l’adozione, in ambiente social, di condotte conformi ai principi e valori fatti propri dall’impresa, a maggior ragione se sanciti da un Codice Etico.
Soprattutto, attraverso una Social Media Policy i lavoratori possono essere resi edotti del fatto che i loro comportamenti, anche se attuati in occasione dell’utilizzo extralavorativo dei social media, ove si rivelino lesivi dell’immagine, della reputazione o in generale degli interessi datoriali, possono avere rilevanza disciplinare e comportare, nei casi più gravi, la compromissione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.
Lo Studio è a disposizione per fornirvi ogni informazione utile e supportarvi nella predisposizione e l’aggiornamento della Social Media Policy più adatta alle vostre esigenze imprenditoriali.