Le nostre News

piano di ammortamento

30 maggio 2025

Metodi di calcolo delle rate di rivalsa e relativi interessi: il Tribunale di Lucca ritiene illegittimi i piani di rivalsa con “ammortamento alla francese”

di Nidia Bignotti

Il grosso dei piani di ammortamento oggi in uso per stabilire le modalità di pagamento della rivalsa dovuta dagli agenti di assicurazione sulla base dell’art. 37 dell’Accordo Nazionale Agenti è detto “agevolato”, in quanto, per accordo individuale o aziendale, presenta condizioni di miglior favore rispetto a quelle fissate dalla normativa collettiva nazionale.

Le condizioni migliorative attengono principalmente e storicamente alla durata del piano, ma i più recenti accordi aziendali prevedono anche tassi di interesse ridotti (rispetto al 3% annuo indicato dall’ANA del 2003) e persino il “tasso zero”, seppure soltanto per periodi limitati di tempo.

Se il ribasso del tasso di interesse rappresenta sempre una vera e autentica agevolazione, invece la maggiore durata del piano, quando non sia accompagnata da riduzione del tasso, spesso risolve solo apparentemente le problematiche che da sempre connotano l’applicazione di questa norma collettiva e, anzi, addirittura le amplifica in caso di scioglimento del contratto di agenzia prima della scadenza finale del piano, perché in quest’ipotesi – che è tutt’altro che infrequente – l’agente si ritrova a dover pagare da subito e in un’unica soluzione l’intera somma corrispondente alla differenza tra quanto avrebbe dovuto versare secondo le scadenze originarie non agevolate e quanto effettivamente versato. Infatti, l’agevolazione viene generalmente pattiziamente condizionata al pagamento integrale del debito.

Resta quindi in ogni caso di fondamentale importanza la corretta determinazione della rivalsa in conformità a quanto previsto dall’art. 37, il cui primo comma stabilisce l’ammontare della rivalsa dovuta, mentre il secondo comma ne fissa le modalità di versamento o, come dicono gli economisti, le modalità di ammortamento.

Va considerato anche il terzo comma, che prescrive, in caso di scioglimento del contratto di agenzia, l’esonero dell’agente dal pagamento delle rate non ancora scadute, per le quali l’impresa mandante ha diritto di rivalsa nei confronti dell’agente subentrante.

Per quanto concerne l’entità della rivalsa dovuta in base al primo comma, come è noto, la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che l’importo debba essere determinato avuto riguardo al valore economico del portafoglio attribuito in gestione all’agente subentrante.

La Corte di Cassazione ha chiarito infatti che la ratio del diritto di rivalsa riconosciuto dal primo comma dell’art. 37, e quindi del diritto dell’impresa preponente di ottenere dall’agente subentrante nella gestione del portafoglio il rimborso di quanto versato a titolo di indennità all’agente cessato, va individuata nel fatto che l’agente subentrante trae immediati benefici, in termini di provvigioni, dalla gestione di questo portafoglio al quale sono commisurate, in misura rilevante, le indennità riconosciute al suo predecessore.

Ne segue, secondo la Corte Suprema, che, nel rispetto della sua ratio, la rivalsa deve essere determinata avuto riguardo al parametro preponderante, seppure non esclusivo, del valore economico del portafoglio attribuito in gestione all’agente subentrante; il che comporta nella pratica che una diminuzione dei benefici ricavabili dal subentrante, effettuata ad esempio con la riduzione dei tassi di provvigione all’atto del subentro nella gestione del portafoglio, incide proporzionalmente sull’entità della rivalsa dovuta.

Naturalmente la logica della rivalsa dovrebbe guidare non solo la determinazione dell’ammontare della rivalsa dovuta, ma anche le modalità del suo versamento in base a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 37.

Peccato che ciò nella realtà non avvenga. Infatti, la totalità dei piani di ammortamento attualmente utilizzati dalle imprese assicuratrici è “alla francese”.

Come insegnano gli studiosi di matematica finanziaria, l’ammortamento alla francese è caratterizzato dal fatto che il rimborso del capitale e degli interessi avviene secondo un piano che prevede il pagamento del debito a rate uguali e costanti, composte da una quota di capitale crescente e da una quota di interessi decrescente. Le rate sono sempre identiche e composte da interessi che sono calcolati da subito sull’intero capitale da rimborsare (per lo più in modo “composto”) e via via sul capitale residuo, e da frazioni di capitale quantificate per differenza.

È un sistema di ammortamento che notoriamente rende il rimborso oltremodo oneroso, dal momento che la restituzione del capitale è ritardata dalla necessità di assicurare la rata costante, con conseguente lievitazione degli interessi a sfavore del debitore.

La prioritaria e prevalente imputazione a interessi dei pagamenti iniziali, oltre che far crescere la quota degli interessi complessivamente dovuti, penalizza l’agente anche sotto altro e diverso profilo. Infatti, non si può non notare che nel caso in cui lo scioglimento del rapporto agenziale avvenga prima del compimento del piano di rivalsa, con conseguente esonero dal pagamento delle rate non ancora scadute, l’agente si ritrova ad avere già pagato interessi anche sulle rate non ancora scadute ovvero sul corrispettivo dell’avviamento di cui verrà a godere il suo subentrante.

Per questo motivo, come segnalai più di tre lustri fa su questa rivista[1], il metodo di ammortamento alla francese non può ritenersi coerente con la ratio della rivalsa come individuato da concorde giurisprudenza.

Tuttavia, le imprese assicuratrici continuano a sostenere che l’ammortamento alla francese sia l’unico utilizzato dal mercato semplicemente perché è il solo utilizzabile per avere un ammortamento a rate uguali, così come imposto dalla lettera del disposto del secondo comma dell’art. 37 ANA.

Ma l’assunto corrisponde al vero?

La risposta a questo interrogativo data dal Tribunale di Lucca con una recentissima sentenza è negativa.[2]

La pronuncia afferma, infatti, che per avere un ammortamento a rate uguali è sufficiente prevedere l’applicazione dell’interesse annuo sulla sola rata annuale.

Non solo. Rileva anche che la metodologia alla francese «appare macroscopicamente errata», mentre il metodo di ammortamento corretto e conforme alla norma collettiva nazionale è appunto quello che prevede l’applicazione dell’interesse annuo sulla sola rata annuale.

Prima di riportare gli argomenti spesi dal Giudice per censurare l’uso dell’ammortamento alla francese in materia di rivalsa, merita ricordare che, in effetti, almeno sino agli anni novanta del secolo scorso una parte delle imprese assicuratrici adottava piani di rivalsa non già alla francese, bensì con applicazione dell’interesse semplice sulla rata annuale. La realtà stessa, prima ancora che la cultura giuridica e la scienza matematica, smentisce dunque la tesi che difetterebbe in rerum natura un piano di ammortamento alternativo a quello francese e rispondente alla regola fissata dall’Accordo Nazionale Agenti.

Tornando alla sentenza, essa preliminarmente ricorda che il disposto del comma 2 dell’art. 37 così recita: «Il versamento dell’importo della rivalsa viene effettuato in rate annuali, uguali ed anticipate, comprensive dell’interesse annuo del 3%. La rateazione è di 6 annualità se l’agente predecessore abbia gestito l’agenzia per non più di 8 anni; di 9 annualità se il predecessore abbia gestito l’agenzia per più di 8 anni, ma non più di 16, ed infine di 12 annualità se il predecessore abbia gestito l’agenzia per più di 16 anni».

Rileva la sentenza che, in base alla lettera della norma, il versamento in rate uguali è prescritto per l’importo della rivalsa, cioè per il capitale: «In base a quanto stabilito dall’Accordo, occorre che siano dunque uguali le rate annuali di capitale».

Osserva inoltre che dal testo della disposizione si arguisce che l’obbligo di calcolo dell’interesse annuo e riferito alla singola rata costante annua e non già sull’intero capitale residuo.

Conclude pertanto il Tribunale di Lucca che «un piano di ammortamento alla francese, a rata costante, ma con quote di capitale rimborsato crescente nel tempo, diverge dalla regola cristallizzata nell’Accordo».

La sentenza giunge quindi a escludere l’utilizzabilità dell’ammortamento alla francese sulla base del chiaro tenore della clausola, senza necessità di ricorrere ad altri criteri o argomenti logici, secondo il brocardo in claris non fit interpretatio.

In effetti, i chiari argomenti utilizzati dalla pronuncia sembrerebbero bastare da soli a sbarrare la strada all’uso dell’ammortamento alla francese in materia, anche se, a proposito di elementi divergenti rispetto alla regola fissata dall’art. 37, si potrebbe aggiungere la considerazione che nell’ammortamento alla francese la prima rata (o l’ultima) è sempre composta da una frazione di solo capitale, e non comprende alcun interesse (l’interesse è pari a zero).

Viene allora da chiedersi la ragione per cui per tanti anni questo metodo di calcolo non sia stato contrastato.

Forse la categoria è ignara dei criteri di calcolo (le formule matematiche sottostanti i piani, in effetti, sono complesse) e dell’esistenza di una alternativa. O forse le conseguenze economiche sono stimate come poco significative.

Ma, in realtà, la differenza di oneri per interessi che determina l’adozione dell’una o dell’altra metodologia non è in genere trascurabile, nemmeno quando il piano è agevolato.

L’indagine contabile effettuata dal Tribunale di Lucca è illuminante sotto questo profilo. Infatti, ha verificato che il piano di ammortamento “alla francese” sottoposto dalla mandante all’agente al momento del conferimento dell’incarico agenziale prevedeva il pagamento di una rivalsa di euro 238.636,12 (somma capitale) in 12 anni, con decorrenza 1/2/2007 e scadenza 1/2/2018, con un carico complessivo di interessi pari a euro 40.691,25 (con una incidenza effettiva degli interessi sull’importo della rivalsa pari al 17,05%), mentre con un piano conforme all’art. 37, comma 2, dell’Accordo Nazionale Agenti, l’agente avrebbe dovuto versare euro 238.636,12 per capitale ed euro 7.159,08 per interessi (con una incidenza degli interessi sull’importo della rivalsa pari al 3%), con un minor versamento complessivo di euro 33.532,17.

Ma c’è di più. L’indagine contabile ha accertato, altresì, che per effetto del combinato disposto del meccanismo di ammortamento alla francese e del piano “agevolato” concesso all’agente con decorrenza 1/2/2007 e scadenza 1/1/2023 (con rateazione mensile), che venne interrotto il 28/12/2020 a seguito delle dimissioni dell’agente, a quella data quest’ultimo aveva pagato ben euro 75.061,88 per interessi, ma soltanto euro 199.177,17 per capitale. Alla data delle dimissioni, quindi, in base alle rate già scadute del piano originario alla francese, residuava ancora un capitale da versare, da parte dell’agente, di euro 39.458,95 (che l’agente ha evitato di versare grazie alla pronuncia del Tribunale).

L’esempio di Lucca dimostra, dunque, che con il piano di ammortamento alla francese c’è un maggior costo per l’agente (e naturalmente un corrispondente maggior lucro per l’impresa mandante) che può essere significativo e non neutralizzato dal piano agevolato, ma anzi da questo addirittura amplificato soprattutto in caso di scioglimento del contratto di agenzia prima della scadenza finale del piano.

Le conseguenze economiche dell’adozione dell’una o dell’altra metodologia di ammortamento potrebbero quindi essere sottostimate.

Naturalmente ogni caso fa a storia a sé e dovrebbe quindi essere esaminata la singola fattispecie per verificare se siano pretesi indebitamente interessi superiori a quelli pattuiti o se siano stati indebitamente pagati nel passato e se siano quindi ripetibili nei limiti della prescrizione.

Vale comunque la pena di fare due conti.

 

 

[1] Assinews, numero 197 del 2009.

[2] Trib. Lucca, 11 aprile 2025, n. 285.

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14 maggio 2025

Quando la messaggistica Whatsapp è corrispondenza aziendale liberamente utilizzabile dal datore di lavoro?

di Filippo Goio e Leonardo Marcomini

La Sezione lavoro della Corte di Cassazione ha recentemente affermato che lo scambio di messaggi all’interno di una chat di Whatsapp fra colleghi di lavoro, creata su loro iniziativa, rappresenta una forma di corrispondenza privata, la cui libertà e segretezza sono costituzionalmente tutelate, con la conseguenza che non è consentito al datore di lavoro fondarvi una contestazione disciplinare e, va da sé, tanto meno un licenziamento per giusta causa, neppure laddove tali messaggi abbiano contenuto offensivo nei confronti dello stesso datore di lavoro.

Dobbiamo dedurre che e-mail e chat sono una zona franca in cui tutto è consentito? Non proprio: è bene evitare generalizzazioni affrettate e distinguere anzitutto fra corrispondenza privata e corrispondenza aziendale, perché non tutte le comunicazioni sfuggono al controllo del datore di lavoro.

La Corte d’Appello di Milano, ad esempio, ha confermato con sentenza n. 36/2020 che, mentre le e-mail personali del dipendente sono assolutamente inaccessibili, pena la commissione di un reato e la violazione delle regole costituzionali sul segreto della corrispondenza, così non è per quelle aziendali, inviate o ricevute da account di posta di titolarità dell’impresa, e che in questo caso il controllo da parte del datore di lavoro può essere legittimo a determinate condizioni.  

Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con decisione del 5 settembre 2017, ha affermato che il controllo della posta elettronica aziendale da parte del datore di lavoro, pur potendo integrare un’ingerenza nel diritto alla vita privata, è compatibile con la tutela prevista in materia di corrispondenza, a condizione però che i dipendenti siano stati «preventivamente informati dell’esistenza di un controllo sulla corrispondenza, delle modalità e motivazioni di tale controllo». 

È da ritenere che questi principi valgano anche per il controllo dei messaggi inviati con l’applicativo Whatsapp o altro sistema di messaggistica istantanea aziendale (Microsoft Teams, Google Meet, ClickUp, Slack, Webex, etc.) che sempre più frequentemente le imprese utilizzano per le comunicazioni di lavoro sia interne che esterne. Infatti, similmente a quanto avviene per la posta elettronica, anche la messaggistica istantanea può essere messa a disposizione del lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e quindi può costituire strumento di lavoro ai sensi dell’art. 4, comma 2, St. Lav., in quanto tale sottratto alla rigida disciplina prevista per gli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (in questo senso, Cass. 22 settembre 2021, n. 25731).

Tuttavia, va considerato che (anche) in questo caso l’utilizzabilità delle informazioni raccolte attraverso l’applicazione di messaggistica aziendale «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro», compresi quelli disciplinari, è subordinata, secondo il disposto del comma 3, dello stesso art. 4 St. Lav. alla «condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196», cioè la normativa privacy.

Per potere legittimamente utilizzare le informazioni ricavate dal controllo della messaggistica aziendale, il datore di lavoro deve quindi adottare una policy ad hoc o – meglio ancora – trattare queste applicazioni all’interno del regolamento che disciplina l’utilizzo in azienda degli strumenti informatici, fornendo ai dipendenti istruzioni precise sulle relative modalità di utilizzo. Soprattutto, la policy dovrà rendere adeguatamente edotto il personale circa la possibilità e le modalità di effettuazione di controlli – beninteso, attuati nel rispetto della normativa in materia di privacy – anche per evitare che possa crearsi nei lavoratori un legittimo affidamento sulla riservatezza dei messaggi scambiati (come ipotizzato dal Garante per il trattamento dei dati personali nelle linee guida sull’utilizzo della posta elettronica nel rapporto di lavoro, emanate nell’ormai lontano 2007). 

Un aspetto da non sottovalutare e meritevole di regolamentazione specifica è quello dell’eventuale utilizzo dei sistemi di messaggistica non solo per le comunicazioni interne ma anche per quelle esterne, come con clienti e fornitori: in questi casi è consigliabile inibire o quanto meno limitare la possibilità di condivisione, attraverso lo strumento, di documenti contenenti informazioni riservate o dati che l’interlocutore non sia autorizzato a conoscere in virtù del rapporto intercorrente con l’impresa.

Altra variabile da considerare e disciplinare è quella relativa all’utilizzo della “chat” (anche o solo) attraverso un dispositivo di proprietà dell’azienda e messo a disposizione del dipendente per uso promiscuo, cioè anche per fini personali. In questi casi, appare ancor più necessaria l’adozione di una policy chiara e completa, che potrebbe ad esempio operare una distinzione fra il dispositivo (smartphone, tablet, etc.) e l’applicazione di messaggistica preinstallata su iniziativa datoriale, riservando l’uso promiscuo solo al primo, così come potrebbe prevedere, quando hardware e software lo consentono, la segregazione di dati o l’impiego di due differenti account di accesso, dedicati l’uno all’utilizzo lavorativo e l’altro a quello personale. 

Un caso del tutto particolare è quello – di derivazione statunitense ma da qualche tempo presente in alcune realtà nazionali, anche per i risvolti “green” e le possibili influenze in ambito ESG – connesso alle politiche BYOD (Bring Your Own Device) e CYOD (Choose Your Own Device), che consentono l’utilizzo di strumenti di proprietà del dipendente per lo svolgimento del lavoro, talvolta anche mediante collegamento alla rete aziendale. 

Queste fattispecie sono senz’altro più complesse da regolamentare stante il coinvolgimento di un dispositivo (hardware) personale del lavoratore ma non sembra impossibile ovviare ai problemi con soluzioni ad hoc. Una di queste potrebbe essere la contrattualizzazione con il singolo dipendente, al quale l’impresa potrebbe consentire l’utilizzo del dispositivo personale alla condizione che questo venga, prima, messo a disposizione del proprio reparto IT per consentirvi l’installazione di una o più applicazioni – fra cui, per l’appunto, quella di messaggistica – necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa e da destinare a questo esclusivo utilizzo. Va da sé che, in un caso simile, sarebbe preferibile che l’applicazione fosse sviluppata in modo tale da consentire l’accesso tramite credenziali che dovrebbero essere fornite al dipendente direttamente dall’impresa, fugando ogni dubbio sulla sua natura. Al riguardo, merita ricordare che secondo la Cassazione Penale, la corrispondenza elettronica (quindi, si ritiene, anche quella scambiata attraverso sistemi di messaggistica) non può considerarsi “chiusa” «nei confronti di chi venga legittimamente a disporre, sin dall’origine, della chiave informatica di accesso, secondo regolamentazione interna già portata a conoscenza dei dipendenti» e deve ritenersi, allorquando il sistema sia protetto da password, «che la corrispondenza in esso custodita sia lecitamente conoscibile da parte di tutti coloro che legittimamente dispongano della chiave informatica di accesso».

Quando, diversamente, in azienda ci si limiti a scambiare messaggi (tra colleghi, tra superiori e sottoposti o persino tra lo stesso imprenditore e i suoi dipendenti) attraverso una comune applicazione di messaggistica che i dipendenti abbiano installata sui loro dispositivi personali – banalmente, si pensi a quante persone utilizzano Whatsapp dal loro smartphone personale anche per conversare con superiori e colleghi – è assai arduo ragionare in termini di «strumento di lavoro», perché l’applicazione non proviene e non è in alcun modo riferibile all’impresa e soprattutto l’accesso alla stessa avviene tramite credenziali personali, il che consente di equipararne i contenuti alla corrispondenza privata con conseguente inutilizzabilità da parte del datore di lavoro.

Le nostre News

8 aprile 2025

Whatsapp in azienda: la riservatezza della corrispondenza come ulteriore limite al potere disciplinare del datore di lavoro.

di Filippo Goio e Leonardo Marcomini

È ormai consuetudine, già da qualche anno, l’utilizzo di “chat di gruppo” anche nell’ambiente di lavoro – prevalentemente, ma non solo, attraverso l’applicazione “Whatsapp” – talvolta istituite su iniziativa del datore di lavoro, più spesso nate spontaneamente e utilizzate fra colleghi per conversazioni di varia natura. Se le prime possono essere utilizzate per ragioni di servizio in senso stretto, come ad esempio per l’organizzazione dei turni di lavoro, le seconde vengono quasi sempre utilizzate anche o solo per motivi extralavorativi.

È lecito chiedersi, nel secondo caso, se ed entro quali limiti sia consentito all’imprenditore tenere conto a fini disciplinari di commenti, espressioni e giudizi condivisi dai propri dipendenti all’interno di queste chat, qualora vi vengano veicolate, ad esempio, offese nei confronti dell’azienda, di un superiore o di un cliente.

Due recenti sentenze della sezione lavoro della Corte di Cassazione, pronunciate a breve distanza l’una dall’altra, forniscono delle indicazioni al riguardo e stimolano alcune riflessioni.

Antecedente logico dell’approfondimento è la qualificazione di questo particolare mezzo di comunicazione fornita dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 170/2023, secondo cui lo scambio di messaggi elettronici, anche attraverso «…SMS, Whatsapp e simili, rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti dell’art. 15 Cost.», disposizione che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza sancendone l’inviolabilità.

La ratio dell’analogia operata dalla Consulta poggia essenzialmente su due fattori: da un lato l’ampio significato attribuito al concetto di “corrispondenza”, che comprenderebbe «ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza»; dall’altro il requisito comune della segretezza che connatura queste forme di comunicazione, per quanto evidentemente eterogenee.

Se per la tradizionale corrispondenza epistolare rileva, ai fini dell’inviolabilità, l’inserimento dello scritto in una busta chiusa, per i messaggi inviati tramite Whatsapp o applicazione analoga a rilevare è che essi siano visualizzabili solo dal soggetto (o dai soggetti, nel caso delle chat di gruppo) nella cui disponibilità si trovi il dispositivo elettronico di destinazione, anch’esso protetto da credenziali di accesso o altri meccanismi di identificazione (FaceID, impronta digitale, etc.). In questo modo si realizza un rapporto comunicativo volto a escludere terzi dalla conoscenza del suo contenuto: da qui l’assunto secondo cui anche i messaggi inviati tramite i sistemi di messaggistica istantanea rientrano nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., che ne garantirebbe l’inviolabilità «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”».

Non è sede appropriata, questa, per discutere della portata forse eccessivamente estensiva sostenuta dalla Consulta. Se ci si limita a prendere atto della qualificazione delle “chat di gruppo” come mezzo di corrispondenza tutelata dal precetto costituzionale, è facile immaginare quali possano essere le ripercussioni in ambito lavorativo e come tale qualificazione possa rappresentare un limite molto stringente all’esercizio del potere disciplinare da parte dell’imprenditore.

Mentre, infatti, in un caso più risalente (Cass., 27 aprile 2018, n. 10280) era stata confermata la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente resosi estensore di espressioni gravemente offensive nei confronti di un superiore gerarchico, pubblicate su una bacheca di Facebook – sull’assunto che tale mezzo di comunicazione consente di raggiungere una platea indeterminata di persone – in altro più o meno coevo (Cass., 10 settembre 2018, n. 21965) era stata esclusa la sussistenza della giusta causa di licenziamento perché messaggi di analogo tenore erano stati, questa volta, condivisi all’interno di una “chat” privata, cosicché non potevano essere legittimamente conosciuti da soggetti esterni a essa, incluso il datore di lavoro.

Oggi, anche alla luce della sentenza n. 170/2023 della Corte Costituzionale, l’orientamento restrittivo appena richiamato è destinato a diffondersi sempre più, come confermano le due sentenze ravvicinate della Corte di Cassazione di cui si è fatto cenno.

Nel primo caso (Cass., 28 febbraio 2025, n. 5334) la vicenda verteva sul licenziamento adottato nei confronti di un’addetta alle vendite di un noto marchio di abbigliamento del settore luxury per avere condiviso, nella chat di Whatsapp utilizzata con i colleghi attraverso dispositivi personali, un video realizzato sul posto di lavoro che ritraeva una cliente «particolarmente corposa» allo scopo – parrebbe – di denigrarne l’aspetto fisico e quindi per avere esposto a pregiudizio l’immagine dell’azienda e la riservatezza della stessa cliente. È utile, ai nostri fini, evidenziare che il datore di lavoro aveva appreso la circostanza perché segnalata – e il video inoltrato – da uno dei partecipanti alla chat di gruppo in questione, il quale pertanto ne era legittimamente a conoscenza.

Nel secondo caso (Cass., 6 marzo 2025, n. 5936) il licenziamento era stato intimato al dipendente che in una chat, sempre di carattere extralavorativo (denominata “Amici di lavoro”), aveva condiviso dei messaggi vocali dai connotati addirittura «offensivi, denigratori, minatori e razzisti» nei confronti di un proprio superiore gerarchico, il cui contenuto preciso purtroppo non è dato conoscere.

Ad accomunare le due vicende vi è il principio di diritto pronunciato dalla Corte di Cassazione, che ha ritenuto in entrambi i casi illegittimi i licenziamenti ribadendo come l’invio di messaggi all’interno di una chat di Whatsapp integri una fattispecie di corrispondenza privata, la cui libertà e segretezza sono costituzionalmente tutelate, con la conseguenza che non è consentito (i) al partecipante – e legittimo destinatario – diffonderli o riferirne il contenuto a terzi e (ii) al datore di lavoro, in quanto terzo, fondarvi una contestazione disciplinare e, va da sé, tanto meno un licenziamento per giusta causa, neppure laddove tali messaggi abbiano contenuto offensivo nei confronti dello stesso datore di lavoro, di un superiore o di un collega.

Pare di poter dire, quindi, che secondo questo orientamento la natura di corrispondenza privata dei messaggi inviati in una chat di Whatsapp dovrebbe operare come limite oggettivo alla conoscibilità degli stessi al di fuori dei destinatari individuati e alla utilizzabilità da parte del datore di lavoro, estraneo a questa cerchia ristretta, del relativo contenuto in sede disciplinare – a prescindere da come lo abbia appreso – e rendere quindi superflua ogni considerazione concernente, ad esempio, il diritto di critica e i suoi limiti.

Al riguardo si possono sviluppare almeno due riflessioni, una di principio e una di metodo.

Sotto il primo profilo occorre considerare che anche un diritto costituzionale, come quello alla segretezza e inviolabilità della corrispondenza, può essere limitato in presenza di altri diritti dello stesso rango e meritevoli di almeno eguale tutela, sicché non è possibile prescindere dall’apprezzamento, caso per caso, delle circostanze concrete e dal bilanciamento dei diritti che vengono per volta in rilievo, fra i quali vi può essere anche quello alla libera iniziativa economica protetto dall’art. 41 Cost.

Per quanto riguarda il metodo appare necessario considerare nel loro complesso, di volta in volta, le azioni dei propri dipendenti e valutarne la portata al di là del contenuto di eventuali messaggi scambiati in una chat con i colleghi. In questo senso, il momento – talvolta sottovalutato – della contestazione disciplinare, su cui poggia interamente qualsiasi sanzione e che è notoriamente immutabile, assume rilievo decisivo perché, in casi simili, il rischio che si corre è di concentrarsi sul dito perdendo di vista la luna.

Beninteso, non sarà sempre possibile individuare un comportamento del dipendente ulteriore e diverso dalla mera condivisione del messaggio ma in almeno una delle vicende esaminate – in particolare la prima, riguardante il video registrato all’insaputa della cliente «corpulenta» e successivamente condiviso nella chat dei colleghi – è la stessa Corte di Cassazione a porre l’accento sul fatto che oggetto di contestazione era stato esclusivamente il «contenuto della comunicazione inviata tramite WhatsApp e col telefono privato ai colleghi», prima di affermare che ciò non può, di per sé, costituire motivo di licenziamento perché, tra l’altro, l’imprenditore non detiene un «potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere spazi di libertà costituzionalmente protetti come quello concernente la corrispondenza privata».

In altre parole, nella fattispecie la Corte pare aver rimproverato all’azienda, nemmeno troppo velatamente, di avere contestato alla dipendente il fatto sbagliato – e cioè esclusivamente l’aver «postato il video sulla chat» – rendendo quindi vana e in definitiva impedendo ogni considerazione «sulle pur innegabili esigenze di tutela della privacy della persona ripresa nel video», dal momento che il comportamento oggetto di addebito è attratto nel raggio di protezione dell’art. 15 Cost. Il contenuto del messaggio, cioè – per utilizzare le espressioni della Cassazione – «è divenuto esso stesso ragione del recesso».

È possibile, se non probabile, che una contestazione diversamente formulata, concentrata non già sul contenuto dei messaggi e del video inviato nella chat ai colleghi ma piuttosto sul comportamento poco edificante – per usare un eufemismo – tenuto dalla dipendente sul posto di lavoro avrebbe condotto ad esiti diversi e consentito quanto meno di valutare l’idoneità di tale comportamento a ledere il vincolo fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro e quindi a costituire giusta causa di licenziamento.

Le nostre News

19 aprile 2024

Social media e rapporti di lavoro: la regolamentazione preventiva riduce il rischio di utilizzo improprio.

di Filippo Goio

Twitter, Facebook, Instagram, LinkedIn: sono solo alcuni dei social media attualmente più in voga.

Oggi, in piena era digitale, queste e altre piattaforme sono parte integrante non solo della vita di moltissimi individui ma anche dell’attività di altrettante imprese, che le utilizzano su base quotidiana, sfruttandone le indiscusse potenzialità, per accrescere la propria visibilità sul mercato, promuovere prodotti, veicolare informazioni o semplicemente per partecipare ad una rete spesso foriera di opportunità.

È inevitabile che la così ampia diffusione dei social media possa influenzare anche lo svolgimento dei rapporti di lavoro. In particolare, il loro utilizzo da parte del personale dipendente può venire in rilievo sotto un duplice aspetto, che esamineremo brevemente in questo approfondimento.

Da un lato può rilevare la gestione degli account istituzionali dell’impresa, spesso affidata a uffici o persone specifiche – per lo più individuate nell’ambito delle funzioni di vendita o marketing – che con maggiore o minore grado di autonomia vengono preposte all’aggiornamento dei profili social aziendali, alla creazione e condivisione di contenuti e alla gestione delle comunicazioni che l’impresa diffonde nel proprio network sotto forma di post, immagini o interazioni (come commenti, condivisioni di contenuti da altri profili e likes).

Sotto un diverso e più problematico profilo, a rilevare può essere il comportamento che un dipendente adotti nell’utilizzo dei propri profili social a titolo personale: un comportamento, quindi, extralavorativo e tuttavia potenzialmente idoneo a ripercuotersi sul rapporto di lavoro, talvolta con conseguenze irreparabili.

È credenza diffusa che i social network costituiscano una zona franca ove è consentito esprimersi liberamente e che le opinioni scolpite in un post siano sempre improduttive di effetti, nella errata convinzione che basti, al più, eliminarle con un ‘click’.

In questo contesto, da alcuni anni la giurisprudenza si trova con discreta frequenza ad affrontare vicende imperniate attorno a commenti o espressioni offensive indirizzate da dipendenti nei confronti dei rispettivi datori di lavoro attraverso i social media. Le novità, a ben vedere, risiedono unicamente nel mezzo utilizzato, perché i principi di diritto applicati in queste fattispecie hanno poco di innovativo, riferendosi, in senso lato, al diritto di critica del prestatore di lavoro.

In estrema sintesi, il diritto di esprimere critiche nei confronti dell’imprenditore-datore di lavoro rientra nel più ampio diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, che trova in ambito lavoristico il suo riflesso nell’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori («I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge»).

La critica, sostanziandosi nella manifestazione di un’opinione e quindi di un giudizio di valore squisitamente soggettivo, non deve essere necessariamente obiettiva e neutra; ciò, beninteso, non significa che sia scevra da limiti.

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, pur costituzionalmente tutelato, nella generalità dei rapporti non può essere esercitato sino al punto da ledere altri diritti, anch’essi tutelati dalla Costituzione in quanto inviolabili (art. 2 Cost.), come quelli alla reputazione, all’immagine e all’onore della persona oggetto di critica.

Inoltre, nell’ambito del rapporto di lavoro, il diritto di critica incontra un ulteriore limite nell’obbligo di fedeltà connaturato al contratto di lavoro subordinato (art. 2105 c.c.), che impone di manifestare le opinioni nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede e di non divulgare, dentro e fuori l’ambiente di lavoro, notizie riguardanti l’impresa in modo da arrecarvi pregiudizio.

Nel corso degli anni, per individuare un giusto equilibrio tra il diritto del prestatore di lavoro a manifestare il proprio pensiero e quello dell’imprenditore all’onore e alla reputazione, la giurisprudenza ha delineato i limiti al diritto di critica del primo traendo spunto dai principi elaborati in materia di critica e cronaca giornalistica.

Tali limiti sono rappresentati dalla «continenza formale», che impone al lavoratore di esporre la propria critica con misura, moderazione e in modo civile, nel rispetto dei principi generali di correttezza e della altrui dignità; nonché dalla «continenza sostanziale», secondo cui il giudizio di valore deve fondarsi su fatti veritieri. Il dipendente che eserciti il proprio diritto di critica in violazione anche di uno soltanto dei suddetti limiti attua un comportamento illecito che può formare oggetto di procedimento disciplinare e, nei casi più gravi, costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c.

Applicando i principi appena sintetizzati alla critica del dipendente veicolata tramite i social media, che consentono potenzialmente, anche attraverso le condivisioni e i commenti altrui, la diffusione capillare del pensiero, la giurisprudenza ha, solo per fare alcuni esempi, giudicato sorretto da giusta causa il licenziamento intimato al prestatore di lavoro – nella fattispecie un lavoratore-sindacalista – per avere rivolto all’azienda, in alcuni commenti pubblicati su Facebook, espressioni connotate da «sgradevole volgarità», ritenute prive di una qualsivoglia utilità divulgativa e finalizzate a ledere il decoro e la reputazione dell’imprenditore (Cass. Civ., ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35922; in termini analoghi Cass. Civ., n. 10280/2018).

In altra occasione la Cassazione ha affermato che un post su Facebook, ancorché pubblicato sulla bacheca personale del dipendente, se caratterizzato da contenuto offensivo nei riguardi dei vertici aziendali può costituire atto di insubordinazione e giustificare il licenziamento disciplinare (Cass. Civ., n. 27939/2021).

Diversa piattaforma ma identico epilogo ha visto il caso del dipendente licenziato per avere “cinguettato” frasi sprezzanti e denigratorie all’indirizzo del datore di lavoro sul proprio profilo Twitter (Trib. Busto Arsizio, 20 febbraio 2018, n. 62).

Senza dimenticare che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai diffuso, la pubblicazione di messaggi offensivi o ingiuriosi riguardanti persone specifiche o agevolmente individuabili può integrare il reato di diffamazione aggravata (art. 595, co. 3 c.p.) in quanto recata con il mezzo della stampa o con «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», a cui i social network sono ritenuti assimilabili.

Quello dei social media, insomma, è un terreno che può rivelarsi insidioso e non sorprende che un numero sempre maggiore di enti scelga di implementare specifiche procedure atte a regolamentarne l’utilizzo.

La Social Media Policy – che può concretizzarsi in una procedura autonoma e indipendente o essere calata all’interno di preesistenti regolamenti aziendali, come quelli che disciplinano l’utilizzo degli strumenti informatici – consente all’impresa di fornire indicazioni chiare sull’utilizzo dei social media da parte dei dipendenti, sotto entrambi i profili esaminati in precedenza.

Quanto agli account aziendali è possibile dettare la “Netiquette” che il personale responsabile della loro gestione, rappresentando a tutti gli effetti l’impresa, deve adottare negli ambienti social e in generale nel web (come evitare l’utilizzo di espressioni volgari o la diffusione di messaggi equivocabili o addirittura dal contenuto discriminatorio). È inoltre possibile stabilire obblighi e divieti da rispettare nell’utilizzo e nell’aggiornamento dei profili aziendali, come ad esempio:

– l’obbligo di verificare la correttezza delle informazioni divulgate;

– l’obbligo di attenersi, nella condivisione di contenuti, alle strategie comunicative e alle politiche di marketing dell’impresa;

– il divieto di condividere informazioni riservate, contenuti protetti da diritto d’autore o immagini di persone ritratte in luoghi privati senza averne acquisito il consenso.

Per quel che concerne l’utilizzo, al di fuori del luogo di lavoro, degli account personali dei dipendenti, benché non sia consentito all’imprenditore di ingerirsi nelle abitudini e nei comportamenti extralavorativi dei prestatori di lavoro, le Social Media Policies possono essere utilizzate per sensibilizzarli circa l’importanza di un uso corretto dello strumento. In alcuni casi, ad esempio quando il profilo personale rivela l’appartenenza all’azienda (come nel caso dei Brand Ambassador), possono imporre l’utilizzo di appositi avvisi riguardanti la natura esclusivamente personale dei commenti pubblicati e dei contenuti condivisi e raccomandare l’adozione, in ambiente social, di condotte conformi ai principi e valori fatti propri dall’impresa, a maggior ragione se sanciti da un Codice Etico.

Soprattutto, attraverso una Social Media Policy i lavoratori possono essere resi edotti del fatto che i loro comportamenti, anche se attuati in occasione dell’utilizzo extralavorativo dei social media, ove si rivelino lesivi dell’immagine, della reputazione o in generale degli interessi datoriali, possono avere rilevanza disciplinare e comportare, nei casi più gravi, la compromissione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Lo Studio è a disposizione per fornirvi ogni informazione utile e supportarvi nella predisposizione e l’aggiornamento della Social Media Policy più adatta alle vostre esigenze imprenditoriali.