Dopo una lunga attesa, è stato finalmente presentato alla Camera dei Deputati ed assegnato, il 28 novembre scorso, alla XI Commissione Lavoro, il Disegno di Legge in materia di lavoro (n. 1532-bis) approvato dal Consiglio dei Ministri già nel mese di maggio.
Inizialmente previsto come provvedimento accessorio al decreto legge n. 48/2023 (convertito con legge n. 85 del 3 luglio scorso), il “DDL Lavoro” era stato, infatti, licenziato la scorsa primavera e poi frettolosamente abbandonato, per finire nel dimenticatoio fino a pochi giorni fa.
Il Disegno interviene su diversi aspetti del rapporto di lavoro ma a spiccare tra le varie previsioni, soprattutto dall’angolo di osservazione delle imprese, è l’attuale art. 9, che dovrebbe eradicare una volta per tutte la fastidiosa abitudine, tutta italiana, di assentarsi ingiustificatamente dal posto di lavoro per provocare il proprio licenziamento.
Parliamo naturalmente di quei lavoratori – da alcuni ribattezzati come “furbetti della Naspi” – che, sfruttando una vera e propria lacuna normativa, anziché rassegnare le dimissioni, cercano e spesso trovano il modo di ottenere lo stesso risultato (ossia la risoluzione, evidentemente desiderata, del rapporto) per iniziativa del datore di lavoro, conservando così il diritto al pagamento dell’indennità di disoccupazione.
È il caso di fare qualche premessa e almeno un paio di passi indietro.
Come noto, presupposto indefettibile del diritto al pagamento della “Naspi” è la perdita involontaria del lavoro, ragion per cui, salvi pochi casi tassativamente previsti dalla legge, la “nuova assicurazione per l’impiego” non viene riconosciuta nei casi di risoluzione consensuale e di dimissioni non assistite da una giusta causa, poiché in tali ipotesi la perdita del lavoro dipende, del tutto o in parte, dalla volontà del lavoratore.
Ma cosa accade quando il prestatore di lavoro, implicitamente dimissionario, smette semplicemente di presentarsi al lavoro senza fornire giustificazioni per un lasso di tempo apprezzabile?
In passato, in virtù del generale principio di libertà delle forme (art. 1325 c.c.) e del fatto che la legge, a differenza di quanto fa per i licenziamenti, non prescriveva per le dimissioni particolari forme, la giurisprudenza reputava che un tale comportamento potesse «esternare esplicitamente o lasciare presumere, secondo i principi dell’affidamento, la volontà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro»: ossia, in altre parole, integrare un caso di dimissioni per “fatti concludenti”.
Questi principi, un tempo consolidati, sono stati sterilizzati da due interventi normativi che, pur con l’apprezzabile intento di arginare il fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, hanno subordinato la validità delle dimissioni volontarie dapprima ad una procedura di convalida (legge n. 92/2012 o “Legge Fornero”) e, in seguito, alla loro comunicazione esclusivamente per via telematica, attraverso la compilazione di moduli appositamente predisposti dal Ministero del Lavoro (art. 26 del d. Lgs. n. 151/2015, in vigore dal 12 marzo 2016).
Con il secondo e più recente intervento, in particolare, è stato previsto che la mancata comunicazione telematica – ritenuta idonea a “certificare” la genuina volontà del dipendente di risolvere il rapporto di lavoro – determina di per sé l’inefficacia delle dimissioni e, conseguentemente, la mancata cessazione del rapporto di lavoro.
Già a pochi giorni dall’entrata in vigore della disciplina i consulenti del lavoro non mancarono di sollevare dubbi e perplessità, che il Dicastero di Palazzo Balestra liquidò con 20 risposte ad altrettante “FAQ” limitandosi a sostenere, sul punto, che le dimissioni andassero rassegnate esclusivamente con il modello ministeriale e che, in caso di inerzia del dipendente, il datore «dovrà rescindere (sic!) il rapporto di lavoro»: in parole povere, procedere al licenziamento.
Come si suol dire: fatta la legge, trovato l’inganno.
Non ci volle molto prima che qualche lavoratore smaliziato, imbeccato da qualche conoscente più o meno esperto, decidesse di assentarsi dal lavoro senza più dare notizie di sé, in attesa di ricevere un licenziamento disciplinare o per “giusta causa”: ipotesi che, secondo gli orientamenti e le circolari interpretative più recenti, configurano a parere dell’INPS un’ipotesi di perdita involontaria del lavoro e quindi consentono di accedere alla “Naspi”.
Ovviamente un simile comportamento si è diffuso a macchia d’olio fino ad assurgere a vera e propria prassi, talvolta persino caldeggiata da qualche consulente legale attraverso alcuni dei molti siti web che affrontano tematiche giuridiche.
In effetti, di fronte a un dipendente assenteista, non potendo considerare il rapporto risolto per sue dimissioni, l’azienda può optare per due sole soluzioni: la sospensione temporanea del rapporto di lavoro o il licenziamento, preceduto da uno o più procedimenti disciplinari a seconda delle disposizioni del contratto collettivo, che potrebbero prevedere una o più sanzioni di tipo conservativo (come la multa o la sospensione) prima di consentire al datore di lavoro di risolvere il rapporto per inadempimento del dipendente.
La prima soluzione, posto il principio di corrispettività delle prestazioni, consente di mantenere il rapporto di lavoro “congelato” senza assumere iniziative disciplinari e senza versare al lavoratore assente ingiustificato la retribuzione ma, per contro, espone l’impresa a diversi rischi, su tutti il possibile ripensamento del dipendente che potrebbe pretendere di rientrare in servizio, senza dimenticare eventuali pretese impositive da parte di INPS sulla cosiddetta “retribuzione virtuale”.
Più facile, per l’imprenditore, alla lunga, procedere disciplinarmente nei confronti dell’assenteista e risolvere il rapporto di lavoro, seppure anche in tal caso non senza costi e qualche rischio.
Infatti, oltre a far gravare sui contribuenti la sua fruizione illegittima del trattamento teoricamente riservato alle ipotesi di perdita involontaria del lavoro, il lavoratore licenziato per essersi assentato senza giustificazione obbliga anche l’ex datore di lavoro al versamento del cosiddetto “Ticket Naspi”, ossia l’importo che ogni impresa è tenuta a versare per ciascun licenziamento e destinato, per l’appunto, a foraggiare il fondo per l’indennità di disoccupazione.
Non solo: l’azienda potrebbe anche vedersi, in seguito, impugnato il licenziamento ed essere costretta a dimostrarne la legittimità in giudizio, pena il pagamento – cornuti e mazziati, verrebbe da dire – di un’indennità risarcitoria all’ex dipendente.
Secondo un orientamento giurisprudenziale suggestivo ma rimasto confinato, per quanto consta, a una pronuncia del Tribunale di Udine, il comportamento del lavoratore dolosamente assentatosi dal servizio potrebbe essere valutato nell’ottica delle normali azioni risarcitorie e consentire all’azienda di addebitare al dipendente licenziato, anche trattenendolo dalle sue ultime competenze (in via di compensazione atecnica) l’importo del Ticket versato a titolo di risarcimento del danno.
Il DDL appena presentato alla Camera si propone di eliminare il problema alla radice modificando la norma che disciplina le dimissioni telematiche (l’art. 26 richiamato poco sopra), la quale, al nuovo comma 7-bis, dovrebbe prevedere quanto segue: «In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo».
Tutto risolto? Sì e no, parrebbe.
Sicuramente la norma avrebbe il pregio di sottrarre alla disciplina generale – l’obbligo di comunicazione telematica delle dimissioni – le fattispecie in cui il lavoratore manifesta, con il suo comportamento, la volontà di risolvere il rapporto di lavoro, consentendo alle aziende di reputare il rapporto interrotto per iniziativa di quest’ultimo: con esonero, quindi, dal versamento del Ticket e impossibilità, per il lavoratore, di accedere alla “Naspi”.
Qualche dubbio interpretativo potrebbe, però, porsi non tanto in relazione alle (rare) ipotesi in cui il lavoratore sia costretto ad assentarsi improvvisamente e sia genuinamente impossibilitato a fornire giustificazioni per più giorni consecutivi, quanto al rinvio che la norma farebbe, nella formulazione attualmente ipotizzata, al “termine previsto dal contratto collettivo”.
Come sappiamo, molti contratti collettivi disciplinano l’assenza ingiustificata prevedendo sanzioni diverse (sospensione, licenziamento con preavviso, licenziamento “in tronco”) in considerazione della durata dell’assenza e talvolta subordinano ad un primo provvedimento di tipo conservativo – atto, nelle intenzioni, a consentire al dipendente di ravvedersi – la legittimità di quello espulsivo: in questi casi, sarà opportuno che il legislatore chiarisca, anche con l’aiuto di circolari, a quale dei differenti termini pattizi debba farsi riferimento.
La disposizione in esame è comunque destinata a far discutere e, prima ancora che sia iniziato l’iter parlamentare, si sollevano già voci critiche, per le più fondate sulla circostanza che con essa verrebbe concesso al datore di lavoro un potere di recesso sottratto a qualunque sindacato di proporzionalità, aggiuntivo ai rimedi generali (sospensione della retribuzione ed eventuale azione disciplinare).
La cosa certa, quali che siano le soluzioni che adotterà il Legislatore, è che ben presto i “furbetti” dovrebbero avere vita dura.