Le nostre News

19 aprile 2024

Social media e rapporti di lavoro: la regolamentazione preventiva riduce il rischio di utilizzo improprio.

di Filippo Goio

Twitter, Facebook, Instagram, LinkedIn: sono solo alcuni dei social media attualmente più in voga.

Oggi, in piena era digitale, queste e altre piattaforme sono parte integrante non solo della vita di moltissimi individui ma anche dell’attività di altrettante imprese, che le utilizzano su base quotidiana, sfruttandone le indiscusse potenzialità, per accrescere la propria visibilità sul mercato, promuovere prodotti, veicolare informazioni o semplicemente per partecipare ad una rete spesso foriera di opportunità.

È inevitabile che la così ampia diffusione dei social media possa influenzare anche lo svolgimento dei rapporti di lavoro. In particolare, il loro utilizzo da parte del personale dipendente può venire in rilievo sotto un duplice aspetto, che esamineremo brevemente in questo approfondimento.

Da un lato può rilevare la gestione degli account istituzionali dell’impresa, spesso affidata a uffici o persone specifiche – per lo più individuate nell’ambito delle funzioni di vendita o marketing – che con maggiore o minore grado di autonomia vengono preposte all’aggiornamento dei profili social aziendali, alla creazione e condivisione di contenuti e alla gestione delle comunicazioni che l’impresa diffonde nel proprio network sotto forma di post, immagini o interazioni (come commenti, condivisioni di contenuti da altri profili e likes).

Sotto un diverso e più problematico profilo, a rilevare può essere il comportamento che un dipendente adotti nell’utilizzo dei propri profili social a titolo personale: un comportamento, quindi, extralavorativo e tuttavia potenzialmente idoneo a ripercuotersi sul rapporto di lavoro, talvolta con conseguenze irreparabili.

È credenza diffusa che i social network costituiscano una zona franca ove è consentito esprimersi liberamente e che le opinioni scolpite in un post siano sempre improduttive di effetti, nella errata convinzione che basti, al più, eliminarle con un ‘click’.

In questo contesto, da alcuni anni la giurisprudenza si trova con discreta frequenza ad affrontare vicende imperniate attorno a commenti o espressioni offensive indirizzate da dipendenti nei confronti dei rispettivi datori di lavoro attraverso i social media. Le novità, a ben vedere, risiedono unicamente nel mezzo utilizzato, perché i principi di diritto applicati in queste fattispecie hanno poco di innovativo, riferendosi, in senso lato, al diritto di critica del prestatore di lavoro.

In estrema sintesi, il diritto di esprimere critiche nei confronti dell’imprenditore-datore di lavoro rientra nel più ampio diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, che trova in ambito lavoristico il suo riflesso nell’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori («I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge»).

La critica, sostanziandosi nella manifestazione di un’opinione e quindi di un giudizio di valore squisitamente soggettivo, non deve essere necessariamente obiettiva e neutra; ciò, beninteso, non significa che sia scevra da limiti.

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, pur costituzionalmente tutelato, nella generalità dei rapporti non può essere esercitato sino al punto da ledere altri diritti, anch’essi tutelati dalla Costituzione in quanto inviolabili (art. 2 Cost.), come quelli alla reputazione, all’immagine e all’onore della persona oggetto di critica.

Inoltre, nell’ambito del rapporto di lavoro, il diritto di critica incontra un ulteriore limite nell’obbligo di fedeltà connaturato al contratto di lavoro subordinato (art. 2105 c.c.), che impone di manifestare le opinioni nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede e di non divulgare, dentro e fuori l’ambiente di lavoro, notizie riguardanti l’impresa in modo da arrecarvi pregiudizio.

Nel corso degli anni, per individuare un giusto equilibrio tra il diritto del prestatore di lavoro a manifestare il proprio pensiero e quello dell’imprenditore all’onore e alla reputazione, la giurisprudenza ha delineato i limiti al diritto di critica del primo traendo spunto dai principi elaborati in materia di critica e cronaca giornalistica.

Tali limiti sono rappresentati dalla «continenza formale», che impone al lavoratore di esporre la propria critica con misura, moderazione e in modo civile, nel rispetto dei principi generali di correttezza e della altrui dignità; nonché dalla «continenza sostanziale», secondo cui il giudizio di valore deve fondarsi su fatti veritieri. Il dipendente che eserciti il proprio diritto di critica in violazione anche di uno soltanto dei suddetti limiti attua un comportamento illecito che può formare oggetto di procedimento disciplinare e, nei casi più gravi, costituire giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c.

Applicando i principi appena sintetizzati alla critica del dipendente veicolata tramite i social media, che consentono potenzialmente, anche attraverso le condivisioni e i commenti altrui, la diffusione capillare del pensiero, la giurisprudenza ha, solo per fare alcuni esempi, giudicato sorretto da giusta causa il licenziamento intimato al prestatore di lavoro – nella fattispecie un lavoratore-sindacalista – per avere rivolto all’azienda, in alcuni commenti pubblicati su Facebook, espressioni connotate da «sgradevole volgarità», ritenute prive di una qualsivoglia utilità divulgativa e finalizzate a ledere il decoro e la reputazione dell’imprenditore (Cass. Civ., ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35922; in termini analoghi Cass. Civ., n. 10280/2018).

In altra occasione la Cassazione ha affermato che un post su Facebook, ancorché pubblicato sulla bacheca personale del dipendente, se caratterizzato da contenuto offensivo nei riguardi dei vertici aziendali può costituire atto di insubordinazione e giustificare il licenziamento disciplinare (Cass. Civ., n. 27939/2021).

Diversa piattaforma ma identico epilogo ha visto il caso del dipendente licenziato per avere “cinguettato” frasi sprezzanti e denigratorie all’indirizzo del datore di lavoro sul proprio profilo Twitter (Trib. Busto Arsizio, 20 febbraio 2018, n. 62).

Senza dimenticare che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai diffuso, la pubblicazione di messaggi offensivi o ingiuriosi riguardanti persone specifiche o agevolmente individuabili può integrare il reato di diffamazione aggravata (art. 595, co. 3 c.p.) in quanto recata con il mezzo della stampa o con «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», a cui i social network sono ritenuti assimilabili.

Quello dei social media, insomma, è un terreno che può rivelarsi insidioso e non sorprende che un numero sempre maggiore di enti scelga di implementare specifiche procedure atte a regolamentarne l’utilizzo.

La Social Media Policy – che può concretizzarsi in una procedura autonoma e indipendente o essere calata all’interno di preesistenti regolamenti aziendali, come quelli che disciplinano l’utilizzo degli strumenti informatici – consente all’impresa di fornire indicazioni chiare sull’utilizzo dei social media da parte dei dipendenti, sotto entrambi i profili esaminati in precedenza.

Quanto agli account aziendali è possibile dettare la “Netiquette” che il personale responsabile della loro gestione, rappresentando a tutti gli effetti l’impresa, deve adottare negli ambienti social e in generale nel web (come evitare l’utilizzo di espressioni volgari o la diffusione di messaggi equivocabili o addirittura dal contenuto discriminatorio). È inoltre possibile stabilire obblighi e divieti da rispettare nell’utilizzo e nell’aggiornamento dei profili aziendali, come ad esempio:

– l’obbligo di verificare la correttezza delle informazioni divulgate;

– l’obbligo di attenersi, nella condivisione di contenuti, alle strategie comunicative e alle politiche di marketing dell’impresa;

– il divieto di condividere informazioni riservate, contenuti protetti da diritto d’autore o immagini di persone ritratte in luoghi privati senza averne acquisito il consenso.

Per quel che concerne l’utilizzo, al di fuori del luogo di lavoro, degli account personali dei dipendenti, benché non sia consentito all’imprenditore di ingerirsi nelle abitudini e nei comportamenti extralavorativi dei prestatori di lavoro, le Social Media Policies possono essere utilizzate per sensibilizzarli circa l’importanza di un uso corretto dello strumento. In alcuni casi, ad esempio quando il profilo personale rivela l’appartenenza all’azienda (come nel caso dei Brand Ambassador), possono imporre l’utilizzo di appositi avvisi riguardanti la natura esclusivamente personale dei commenti pubblicati e dei contenuti condivisi e raccomandare l’adozione, in ambiente social, di condotte conformi ai principi e valori fatti propri dall’impresa, a maggior ragione se sanciti da un Codice Etico.

Soprattutto, attraverso una Social Media Policy i lavoratori possono essere resi edotti del fatto che i loro comportamenti, anche se attuati in occasione dell’utilizzo extralavorativo dei social media, ove si rivelino lesivi dell’immagine, della reputazione o in generale degli interessi datoriali, possono avere rilevanza disciplinare e comportare, nei casi più gravi, la compromissione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Lo Studio è a disposizione per fornirvi ogni informazione utile e supportarvi nella predisposizione e l’aggiornamento della Social Media Policy più adatta alle vostre esigenze imprenditoriali.

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15 Dicembre 2023

Linee di indirizzo del sistema di controllo interno e gestione dei rischi: un prototipo

di Vittore d’Acquarone e Riccardo Roscini-Vitali

«[…] se il Modello è stato adottato le procedure di direzione e vigilanza sono “inglobate” nel MOG». Un principio, quello espresso, da ultimo, dal Trib. Milano, sez. X, 6 marzo 2023, n. 3314, consolidato e inoffensivo solo all’apparenza.
Perché, a ben vedere, di procedure di direzione e vigilanza l’ente è, in realtà, innervato. Spesso per finalità non solo 231, ma anche per finalità altre. E a ciascuna di esse fa capo un proprio gestore o più gestori coordinati tra loro.
È, allora, praticabile e auspicabile che l’Organo di amministrazione setacci il fondale normativo dell’ente, attraendo ogni sistema e regola aziendale entro le maglie di un Modello non pensato dal legislatore del 2001 per essere onnivoro?
L’operazione – che pure è certamente, ancorché non agevolmente, praticabile e, anzi, oggi assai in voga sotto il vessillo del Modello integrato – riserva, invero, insidie di non poco momento. A partire dalla forzatura esercitata sull’intero apparato regolatorio e sui suoi singoli gestori verso finalità, logiche di funzionamento e finanche grammatiche che posso risultare non immediatamente comprensibili, fino alla riconfigurazione del ruolo dell’Organismo di vigilanza, il cui perimetro di controllo si spiegherebbe, così, pericolosamente privo di orizzonti.
Insomma, che la normazione endoaziendale si sia evoluta, dal 2001 a oggi, secondo processi di progressiva intensificazione e raffinamento è un dato di fatto. Come si può, allora, favorire l’integrazione, preservando, al tempo stesso, la singolarità e l’autonomia di ciascuna sua componente, evitando, così, il rischio del cortocircuito funzionale-linguistico e, di conseguenza, dell’immobilismo indotto da un Modello che, a mo’ di Pac-Man, “inglobi” gradualmente gli altri Sottosistemi?
L’esigenza è, in realtà, tutt’altro che meramente teorica e, anzi, assai sentita nelle società, in particolare – non foss’altro perché ne complica notevolmente i fattori – se organizzate nella forma del gruppo di impresa.
Abbiamo tentato di formulare una nostra risposta, progettando un prototipo di Linee di indirizzo del Sistema di controllo interno e di gestione dei rischi, come tale pubblicato nella sezione Temi del n. 4/2023 della Rivista 231. Avendo come punto cardinale l’interazione – più che l’integrazione – e, quindi, il dialogo tra Sottosistemi (Modello incluso) e loro rispettivi gestori (Odv compreso), abbiamo elaborato, alla luce dei fenomeni intercettati frequentando il mondo dell’impresa e degli approdi dottrinali e giurisprudenziali più recenti, una nostra personale rilettura di temi che sentiamo prioritari. Il tutto corredato da appendici applicative pensate per scaricare a terra i principi espressi nelle Linee di indirizzo.
Il risultato attuativo dovrebbe restituire una cartografia dell’ecosistema di regole aziendali, utile a orientare l’interlocutore sia interno sia esterno all’ente.
Non resta che aprire il cantiere del confronto e della sperimentazione.

Le nostre News

17 Novembre2023

Assenze strategiche e “NASPI”: siamo davvero alla fine?

di Filippo Goio

Dopo una lunga attesa, è stato finalmente presentato alla Camera dei Deputati ed assegnato, il 28 novembre scorso, alla XI Commissione Lavoro, il Disegno di Legge in materia di lavoro (n. 1532-bis) approvato dal Consiglio dei Ministri già nel mese di maggio.
Inizialmente previsto come provvedimento accessorio al decreto legge n. 48/2023 (convertito con legge n. 85 del 3 luglio scorso), il “DDL Lavoro” era stato, infatti, licenziato la scorsa primavera e poi frettolosamente abbandonato, per finire nel dimenticatoio fino a pochi giorni fa.
Il Disegno interviene su diversi aspetti del rapporto di lavoro ma a spiccare tra le varie previsioni, soprattutto dall’angolo di osservazione delle imprese, è l’attuale art. 9, che dovrebbe eradicare una volta per tutte la fastidiosa abitudine, tutta italiana, di assentarsi ingiustificatamente dal posto di lavoro per provocare il proprio licenziamento.
Parliamo naturalmente di quei lavoratori – da alcuni ribattezzati come “furbetti della Naspi” – che, sfruttando una vera e propria lacuna normativa, anziché rassegnare le dimissioni, cercano e spesso trovano il modo di ottenere lo stesso risultato (ossia la risoluzione, evidentemente desiderata, del rapporto) per iniziativa del datore di lavoro, conservando così il diritto al pagamento dell’indennità di disoccupazione.
È il caso di fare qualche premessa e almeno un paio di passi indietro.
Come noto, presupposto indefettibile del diritto al pagamento della “Naspi” è la perdita involontaria del lavoro, ragion per cui, salvi pochi casi tassativamente previsti dalla legge, la “nuova assicurazione per l’impiego” non viene riconosciuta nei casi di risoluzione consensuale e di dimissioni non assistite da una giusta causa, poiché in tali ipotesi la perdita del lavoro dipende, del tutto o in parte, dalla volontà del lavoratore.

Ma cosa accade quando il prestatore di lavoro, implicitamente dimissionario, smette semplicemente di presentarsi al lavoro senza fornire giustificazioni per un lasso di tempo apprezzabile?
In passato, in virtù del generale principio di libertà delle forme (art. 1325 c.c.) e del fatto che la legge, a differenza di quanto fa per i licenziamenti, non prescriveva per le dimissioni particolari forme, la giurisprudenza reputava che un tale comportamento potesse «esternare esplicitamente o lasciare presumere, secondo i principi dell’affidamento, la volontà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro»: ossia, in altre parole, integrare un caso di dimissioni per “fatti concludenti”.
Questi principi, un tempo consolidati, sono stati sterilizzati da due interventi normativi che, pur con l’apprezzabile intento di arginare il fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, hanno subordinato la validità delle dimissioni volontarie dapprima ad una procedura di convalida (legge n. 92/2012 o “Legge Fornero”) e, in seguito, alla loro comunicazione esclusivamente per via telematica, attraverso la compilazione di moduli appositamente predisposti dal Ministero del Lavoro (art. 26 del d. Lgs. n. 151/2015, in vigore dal 12 marzo 2016).
Con il secondo e più recente intervento, in particolare, è stato previsto che la mancata comunicazione telematica – ritenuta idonea a “certificare” la genuina volontà del dipendente di risolvere il rapporto di lavoro – determina di per sé l’inefficacia delle dimissioni e, conseguentemente, la mancata cessazione del rapporto di lavoro.
Già a pochi giorni dall’entrata in vigore della disciplina i consulenti del lavoro non mancarono di sollevare dubbi e perplessità, che il Dicastero di Palazzo Balestra liquidò con 20 risposte ad altrettante “FAQ” limitandosi a sostenere, sul punto, che le dimissioni andassero rassegnate esclusivamente con il modello ministeriale e che, in caso di inerzia del dipendente, il datore «dovrà rescindere (sic!) il rapporto di lavoro»: in parole povere, procedere al licenziamento.
Come si suol dire: fatta la legge, trovato l’inganno.
Non ci volle molto prima che qualche lavoratore smaliziato, imbeccato da qualche conoscente più o meno esperto, decidesse di assentarsi dal lavoro senza più dare notizie di sé, in attesa di ricevere un licenziamento disciplinare o per “giusta causa”: ipotesi che, secondo gli orientamenti e le circolari interpretative più recenti, configurano a parere dell’INPS un’ipotesi di perdita involontaria del lavoro e quindi consentono di accedere alla “Naspi”.
Ovviamente un simile comportamento si è diffuso a macchia d’olio fino ad assurgere a vera e propria prassi, talvolta persino caldeggiata da qualche consulente legale attraverso alcuni dei molti siti web che affrontano tematiche giuridiche.
In effetti, di fronte a un dipendente assenteista, non potendo considerare il rapporto risolto per sue dimissioni, l’azienda può optare per due sole soluzioni: la sospensione temporanea del rapporto di lavoro o il licenziamento, preceduto da uno o più procedimenti disciplinari a seconda delle disposizioni del contratto collettivo, che potrebbero prevedere una o più sanzioni di tipo conservativo (come la multa o la sospensione) prima di consentire al datore di lavoro di risolvere il rapporto per inadempimento del dipendente.

La prima soluzione, posto il principio di corrispettività delle prestazioni, consente di mantenere il rapporto di lavoro “congelato” senza assumere iniziative disciplinari e senza versare al lavoratore assente ingiustificato la retribuzione ma, per contro, espone l’impresa a diversi rischi, su tutti il possibile ripensamento del dipendente che potrebbe pretendere di rientrare in servizio, senza dimenticare eventuali pretese impositive da parte di INPS sulla cosiddetta “retribuzione virtuale”.
Più facile, per l’imprenditore, alla lunga, procedere disciplinarmente nei confronti dell’assenteista e risolvere il rapporto di lavoro, seppure anche in tal caso non senza costi e qualche rischio.
Infatti, oltre a far gravare sui contribuenti la sua fruizione illegittima del trattamento teoricamente riservato alle ipotesi di perdita involontaria del lavoro, il lavoratore licenziato per essersi assentato senza giustificazione obbliga anche l’ex datore di lavoro al versamento del cosiddetto “Ticket Naspi”, ossia l’importo che ogni impresa è tenuta a versare per ciascun licenziamento e destinato, per l’appunto, a foraggiare il fondo per l’indennità di disoccupazione.
Non solo: l’azienda potrebbe anche vedersi, in seguito, impugnato il licenziamento ed essere costretta a dimostrarne la legittimità in giudizio, pena il pagamento – cornuti e mazziati, verrebbe da dire – di un’indennità risarcitoria all’ex dipendente.
Secondo un orientamento giurisprudenziale suggestivo ma rimasto confinato, per quanto consta, a una pronuncia del Tribunale di Udine, il comportamento del lavoratore dolosamente assentatosi dal servizio potrebbe essere valutato nell’ottica delle normali azioni risarcitorie e consentire all’azienda di addebitare al dipendente licenziato, anche trattenendolo dalle sue ultime competenze (in via di compensazione atecnica) l’importo del Ticket versato a titolo di risarcimento del danno.
Il DDL appena presentato alla Camera si propone di eliminare il problema alla radice modificando la norma che disciplina le dimissioni telematiche (l’art. 26 richiamato poco sopra), la quale, al nuovo comma 7-bis, dovrebbe prevedere quanto segue: «In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo».
Tutto risolto? Sì e no, parrebbe.
Sicuramente la norma avrebbe il pregio di sottrarre alla disciplina generale – l’obbligo di comunicazione telematica delle dimissioni – le fattispecie in cui il lavoratore manifesta, con il suo comportamento, la volontà di risolvere il rapporto di lavoro, consentendo alle aziende di reputare il rapporto interrotto per iniziativa di quest’ultimo: con esonero, quindi, dal versamento del Ticket e impossibilità, per il lavoratore, di accedere alla “Naspi”.
Qualche dubbio interpretativo potrebbe, però, porsi non tanto in relazione alle (rare) ipotesi in cui il lavoratore sia costretto ad assentarsi improvvisamente e sia genuinamente impossibilitato a fornire giustificazioni per più giorni consecutivi, quanto al rinvio che la norma farebbe, nella formulazione attualmente ipotizzata, al “termine previsto dal contratto collettivo”.
Come sappiamo, molti contratti collettivi disciplinano l’assenza ingiustificata prevedendo sanzioni diverse (sospensione, licenziamento con preavviso, licenziamento “in tronco”) in considerazione della durata dell’assenza e talvolta subordinano ad un primo provvedimento di tipo conservativo – atto, nelle intenzioni, a consentire al dipendente di ravvedersi – la legittimità di quello espulsivo: in questi casi, sarà opportuno che il legislatore chiarisca, anche con l’aiuto di circolari, a quale dei differenti termini pattizi debba farsi riferimento.
La disposizione in esame è comunque destinata a far discutere e, prima ancora che sia iniziato l’iter parlamentare, si sollevano già voci critiche, per le più fondate sulla circostanza che con essa verrebbe concesso al datore di lavoro un potere di recesso sottratto a qualunque sindacato di proporzionalità, aggiuntivo ai rimedi generali (sospensione della retribuzione ed eventuale azione disciplinare).
La cosa certa, quali che siano le soluzioni che adotterà il Legislatore, è che ben presto i “furbetti” dovrebbero avere vita dura.

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10 Gennaio 2023

L’organismo di vigilanza

di Vittore d’Acquarone e Riccardo Roscini-Vitali

La norma è, sin dall’origine, apparentemente sintetica: «l’ente non risponde se prova che […] il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli [e] di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo» (art. 6, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 231/2001), nei cui confronti siano «prev[isti] obblighi di informazione» (art. 6, comma 2, lett. d, D.Lgs. n. 231/2001).
Nel capitolo inserito nell’opera Il sistema penale in materia di sicurezza del lavoro, curata da Adelmo Manna ed edita da Wolters Kluwer, abbiamo integralmente riscritto lo statuto funzionale dell’organismo di vigilanza, rapsodicamente riempito di contenuti dalla giurisprudenza, secondo la sistematica di tre norme internazionali tra loro coordinate: UNI ISO 37301:2021 (Sistemi di gestione per la compliance – Requisiti con guida per l’utilizzo), UNI ISO 45001:2018 (Sistemi di gestione per la salute e sicurezza sul lavoro – Requisiti e guida per l’uso) e UNI ISO 37002:2021 (Sistemi di gestione per il whistleblowing – Linee guida).
Infatti, tali norme dettano le migliori pratiche anche per il corretto svolgimento dell’attività di vigilanza. In quanto migliori pratiche, esse rappresentano, pertanto, anche le misure massime, ossia la soglia del pretendibile oltre la quale il giudice penale non può spingersi per il riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001.
Destinatari elettivi del capitolo sono l’organo di governo dell’ente, l’alta direzione, chi svolge l’attività di organismo di vigilanza, il pubblico ministero e il giudice penale.

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15 Dicembre 2022

Vademecum per la progettazione e l’attuazione del modello ex art. 30, D.LGS. 81/2008: Una lettura guidata attraverso l’antologia delle fonti

di Vittore d’Acquarone e Riccardo Roscini-Vitali

Nel capitolo inserito all’interno dell’opera Lineamenti di diritto della sicurezza sul lavoro, curata da Aronne Strozzi ed edita da Le Monnier Università, illustriamo la disciplina del modello del settore safety derivante dal combinato disposto degli artt. 30, d.lgs. 81/2008 e 6 e 7, d.lgs. 231/2001. La narrazione principale è dedicata alle prospettive di soluzione ai maggiori interrogativi sollevati dalla normativa e all’individuazione dei punti cardinali del modello. Ivi fanno incursione spin-off tematici per l’approfondimento di taluni concetti, assumendo come bussola gli standard di riferimento (Linee guida Confindustria, UNI ISO 45001:2018 e Linee guida UNI-INAIL) e la giurisprudenza più recente. Lo studio si rivolge sia al teorico dei compliance programs sia a chi è chiamato a progettarli e attuarli.

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20 Settembre 2021

Whistleblowing e dintorni: è un diritto o un obbligo? E che ne è delle tutele per il whistleblower dell’ente privo di modello?

di Vittore d’Acquarone, Giulia Bertaiola e Riccardo Roscini-Vitali

Prospettate le coordinate essenziali, internazionali e nazionali, dell’istituto del whistleblowing, ci poniamo, nell’articolo pubblicato sul n. 3/2021 della Rivista 231, principalmente due domande con particolare riguardo al corporate whistleblowing, proponendo possibili risposte anche de iure condendo: si tratta di un diritto o di un obbligo e in capo a chi – apicale o sottoposto – e secondo quali forme tale diritto o obbligo si articola? È legittima la limitazione, operata dal legislatore con l. 179/2017, dell’ambito applicativo dell’istituto e delle connesse tutele al solo sistema 231 aziendale? Possibili soluzioni sembrano potersi rintracciare solo sperimentando approcci multidisciplinari della materia della responsabilità dell’ente.

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17 Marzo 2020

L’investigazione interna nel procedimento a carico dell’ente: alcuni spinti per l’integrazione del modello di organizzazione e getione

In un articolo pubblicato sulla Rivista 231 cerchiamo di tracciare i principi per la conduzione dell’investigazione interna, attingendo, in assenza di un’espressa disciplina normativa, dagli spunti offerti dalle disposizioni nazionali e sovranazionali che riteniamo applicabili e mettendo in luce le maggiori criticità della materia in argomento. Analizziamo, poi, alcune proposte avanzate in letteratura nel tentativo di valorizzare, sotto il profilo premiale, la collaborazione investigativa dell’ente rispetto alla condotta illecita commessa al suo interno. Tali proposte traggono ispirazione dai sistemi penali di common law, ma destano, nei loro stessi promotori, alcune perplessità in ragione degli effetti negativi che potrebbero produrre nell’ordinamento italiano laddove non propriamente amministrate. Atteso che, nel settore della compliance nazionale, la riflessione scientifica e operativa in tema di investigazione interna si è avviata solo di recente, ci limitiamo a porre sul tavolo i primi interrogativi che la materia solleva, in alcuni dei quali ci siamo imbattuti anche nell’attività sul campo.