È ormai consuetudine, già da qualche anno, l’utilizzo di “chat di gruppo” anche nell’ambiente di lavoro – prevalentemente, ma non solo, attraverso l’applicazione “Whatsapp” – talvolta istituite su iniziativa del datore di lavoro, più spesso nate spontaneamente e utilizzate fra colleghi per conversazioni di varia natura. Se le prime possono essere utilizzate per ragioni di servizio in senso stretto, come ad esempio per l’organizzazione dei turni di lavoro, le seconde vengono quasi sempre utilizzate anche o solo per motivi extralavorativi.
È lecito chiedersi, nel secondo caso, se ed entro quali limiti sia consentito all’imprenditore tenere conto a fini disciplinari di commenti, espressioni e giudizi condivisi dai propri dipendenti all’interno di queste chat, qualora vi vengano veicolate, ad esempio, offese nei confronti dell’azienda, di un superiore o di un cliente.
Due recenti sentenze della sezione lavoro della Corte di Cassazione, pronunciate a breve distanza l’una dall’altra, forniscono delle indicazioni al riguardo e stimolano alcune riflessioni.
Antecedente logico dell’approfondimento è la qualificazione di questo particolare mezzo di comunicazione fornita dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 170/2023, secondo cui lo scambio di messaggi elettronici, anche attraverso «…SMS, Whatsapp e simili, rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti dell’art. 15 Cost.», disposizione che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza sancendone l’inviolabilità.
La ratio dell’analogia operata dalla Consulta poggia essenzialmente su due fattori: da un lato l’ampio significato attribuito al concetto di “corrispondenza”, che comprenderebbe «ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza»; dall’altro il requisito comune della segretezza che connatura queste forme di comunicazione, per quanto evidentemente eterogenee.
Se per la tradizionale corrispondenza epistolare rileva, ai fini dell’inviolabilità, l’inserimento dello scritto in una busta chiusa, per i messaggi inviati tramite Whatsapp o applicazione analoga a rilevare è che essi siano visualizzabili solo dal soggetto (o dai soggetti, nel caso delle chat di gruppo) nella cui disponibilità si trovi il dispositivo elettronico di destinazione, anch’esso protetto da credenziali di accesso o altri meccanismi di identificazione (FaceID, impronta digitale, etc.). In questo modo si realizza un rapporto comunicativo volto a escludere terzi dalla conoscenza del suo contenuto: da qui l’assunto secondo cui anche i messaggi inviati tramite i sistemi di messaggistica istantanea rientrano nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., che ne garantirebbe l’inviolabilità «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”».
Non è sede appropriata, questa, per discutere della portata forse eccessivamente estensiva sostenuta dalla Consulta. Se ci si limita a prendere atto della qualificazione delle “chat di gruppo” come mezzo di corrispondenza tutelata dal precetto costituzionale, è facile immaginare quali possano essere le ripercussioni in ambito lavorativo e come tale qualificazione possa rappresentare un limite molto stringente all’esercizio del potere disciplinare da parte dell’imprenditore.
Mentre, infatti, in un caso più risalente (Cass., 27 aprile 2018, n. 10280) era stata confermata la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente resosi estensore di espressioni gravemente offensive nei confronti di un superiore gerarchico, pubblicate su una bacheca di Facebook – sull’assunto che tale mezzo di comunicazione consente di raggiungere una platea indeterminata di persone – in altro più o meno coevo (Cass., 10 settembre 2018, n. 21965) era stata esclusa la sussistenza della giusta causa di licenziamento perché messaggi di analogo tenore erano stati, questa volta, condivisi all’interno di una “chat” privata, cosicché non potevano essere legittimamente conosciuti da soggetti esterni a essa, incluso il datore di lavoro.
Oggi, anche alla luce della sentenza n. 170/2023 della Corte Costituzionale, l’orientamento restrittivo appena richiamato è destinato a diffondersi sempre più, come confermano le due sentenze ravvicinate della Corte di Cassazione di cui si è fatto cenno.
Nel primo caso (Cass., 28 febbraio 2025, n. 5334) la vicenda verteva sul licenziamento adottato nei confronti di un’addetta alle vendite di un noto marchio di abbigliamento del settore luxury per avere condiviso, nella chat di Whatsapp utilizzata con i colleghi attraverso dispositivi personali, un video realizzato sul posto di lavoro che ritraeva una cliente «particolarmente corposa» allo scopo – parrebbe – di denigrarne l’aspetto fisico e quindi per avere esposto a pregiudizio l’immagine dell’azienda e la riservatezza della stessa cliente. È utile, ai nostri fini, evidenziare che il datore di lavoro aveva appreso la circostanza perché segnalata – e il video inoltrato – da uno dei partecipanti alla chat di gruppo in questione, il quale pertanto ne era legittimamente a conoscenza.
Nel secondo caso (Cass., 6 marzo 2025, n. 5936) il licenziamento era stato intimato al dipendente che in una chat, sempre di carattere extralavorativo (denominata “Amici di lavoro”), aveva condiviso dei messaggi vocali dai connotati addirittura «offensivi, denigratori, minatori e razzisti» nei confronti di un proprio superiore gerarchico, il cui contenuto preciso purtroppo non è dato conoscere.
Ad accomunare le due vicende vi è il principio di diritto pronunciato dalla Corte di Cassazione, che ha ritenuto in entrambi i casi illegittimi i licenziamenti ribadendo come l’invio di messaggi all’interno di una chat di Whatsapp integri una fattispecie di corrispondenza privata, la cui libertà e segretezza sono costituzionalmente tutelate, con la conseguenza che non è consentito (i) al partecipante – e legittimo destinatario – diffonderli o riferirne il contenuto a terzi e (ii) al datore di lavoro, in quanto terzo, fondarvi una contestazione disciplinare e, va da sé, tanto meno un licenziamento per giusta causa, neppure laddove tali messaggi abbiano contenuto offensivo nei confronti dello stesso datore di lavoro, di un superiore o di un collega.
Pare di poter dire, quindi, che secondo questo orientamento la natura di corrispondenza privata dei messaggi inviati in una chat di Whatsapp dovrebbe operare come limite oggettivo alla conoscibilità degli stessi al di fuori dei destinatari individuati e alla utilizzabilità da parte del datore di lavoro, estraneo a questa cerchia ristretta, del relativo contenuto in sede disciplinare – a prescindere da come lo abbia appreso – e rendere quindi superflua ogni considerazione concernente, ad esempio, il diritto di critica e i suoi limiti.
Al riguardo si possono sviluppare almeno due riflessioni, una di principio e una di metodo.
Sotto il primo profilo occorre considerare che anche un diritto costituzionale, come quello alla segretezza e inviolabilità della corrispondenza, può essere limitato in presenza di altri diritti dello stesso rango e meritevoli di almeno eguale tutela, sicché non è possibile prescindere dall’apprezzamento, caso per caso, delle circostanze concrete e dal bilanciamento dei diritti che vengono per volta in rilievo, fra i quali vi può essere anche quello alla libera iniziativa economica protetto dall’art. 41 Cost.
Per quanto riguarda il metodo appare necessario considerare nel loro complesso, di volta in volta, le azioni dei propri dipendenti e valutarne la portata al di là del contenuto di eventuali messaggi scambiati in una chat con i colleghi. In questo senso, il momento – talvolta sottovalutato – della contestazione disciplinare, su cui poggia interamente qualsiasi sanzione e che è notoriamente immutabile, assume rilievo decisivo perché, in casi simili, il rischio che si corre è di concentrarsi sul dito perdendo di vista la luna.
Beninteso, non sarà sempre possibile individuare un comportamento del dipendente ulteriore e diverso dalla mera condivisione del messaggio ma in almeno una delle vicende esaminate – in particolare la prima, riguardante il video registrato all’insaputa della cliente «corpulenta» e successivamente condiviso nella chat dei colleghi – è la stessa Corte di Cassazione a porre l’accento sul fatto che oggetto di contestazione era stato esclusivamente il «contenuto della comunicazione inviata tramite WhatsApp e col telefono privato ai colleghi», prima di affermare che ciò non può, di per sé, costituire motivo di licenziamento perché, tra l’altro, l’imprenditore non detiene un «potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere spazi di libertà costituzionalmente protetti come quello concernente la corrispondenza privata».
In altre parole, nella fattispecie la Corte pare aver rimproverato all’azienda, nemmeno troppo velatamente, di avere contestato alla dipendente il fatto sbagliato – e cioè esclusivamente l’aver «postato il video sulla chat» – rendendo quindi vana e in definitiva impedendo ogni considerazione «sulle pur innegabili esigenze di tutela della privacy della persona ripresa nel video», dal momento che il comportamento oggetto di addebito è attratto nel raggio di protezione dell’art. 15 Cost. Il contenuto del messaggio, cioè – per utilizzare le espressioni della Cassazione – «è divenuto esso stesso ragione del recesso».
È possibile, se non probabile, che una contestazione diversamente formulata, concentrata non già sul contenuto dei messaggi e del video inviato nella chat ai colleghi ma piuttosto sul comportamento poco edificante – per usare un eufemismo – tenuto dalla dipendente sul posto di lavoro avrebbe condotto ad esiti diversi e consentito quanto meno di valutare l’idoneità di tale comportamento a ledere il vincolo fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro e quindi a costituire giusta causa di licenziamento.